Da villaggio rurale a castello: l’evoluzione di un insediamento altomedievale raccontata per reperti e immagini. Venticinque anni di ricerche storiche e archeologiche e un importante intervento di tutela spalancano le porte del castrum di Santo Stefano
In loco ubi dicitur Vicolongo
L’insediamento medievale di Santo Stefano a Novi di Modena
Mostra a cura di Sara Campagnari (SABAP-BO) e Mauro Librenti (Università Ca’ Foscari)
Sala EXPO presso il PAC, Polo Artistico Culturale
Viale G. Di Vittorio, 30
Novi di Modena (MO)
24 febbraio 2018 – 25 aprile 2018
giovedì ore 10-12,30; sabato e festivi ore 10-12,30 e 15-18
Ingresso gratuito
Info 059 6789220 – biblioteca1@comune.novi.mo.it
http://www.archeobologna.beniculturali.it/mostre/novi_mo_2018.htm
Nel luogo chiamato Vicolongo. Quante volte nei formulari notarili medievali o negli atti ecclesiastici antichi ci si imbatte nella dicitura tanto promettente quanto misteriosa “in loco ubi dicitur” seguita dal toponimo. La ricerca di questi luoghi indicati solo dalle fonti, quasi sempre lunga ed estenuante, si rivela spesso infruttuosa.
Ma non a Novi di Modena. Qui il caparbio lavoro del Gruppo Archeologico Carpigiano, del Gruppo Archeologico Bassa Modenese e del Circolo Storico Novese, coordinato dalla Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio di Bologna, è riuscito a trovare ciò che cercava. E anche di più, ne ha ricostruito la storia.
L’individuazione del sito archeologico di Vicolongo, a metà strada tra Novi di Modena e Concordia sulla Secchia, è figlio di una ricerca durata più di 25 anni. Nessuna strada, nessun corso d’acqua, edificio o consuetudine orale indiziavano nel nome l’antico Vicus Longus. Solo i documenti d’archivio ubicavano in quest’area prima un vicus, menzionato a partire dall’841 nei pressi della pieve di Santo Stefano, e poi un castrum.
Ricerche di superficie e sondaggi più recenti hanno portato prima al recupero di centinaia di reperti tra cui armi, monete e ornamenti anche di grande pregio, e poi al ritrovamento di una porzione del sistema difensivo del castrum e di un manufatto della fase precedente, una fornace, riferibile al vicus citato dalle fonti.
La mostra “In loco ubi dicitur Vicolongo. L’insediamento medievale di Santo Stefano a Novi di Modena” racconta con reperti e immagini la storia di questo sito, posto in un territorio ininterrottamente occupato dall’età augustea alla tarda Antichità, poi trasformato nel castello altomedievale più volte menzionato dai documenti d’archivio.
Allestita fino al 25 aprile nel Polo Artistico Culturale, la mostra è curata dagli archeologi Sara Campagnari, della Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio di Bologna, e Mauro Librenti, dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, ed è corredata da una guida breve e un catalogo scientifico editi dal Gruppo Studi Bassa Modenese.
L’esposizione offre una visione complessiva dell’insediamento, ricostruendo l’assetto del castello e presentando una selezione di oltre 200 reperti che illustrano la vita nel castrum fin dalle sue fasi più antiche.
Grazie al lavoro congiunto di associazioni locali e Soprintendenza la mostra mette a sistema tutti i dati ricavabili dalle fonti, dai vecchi e nuovi dati archeologici, dalle recenti indagini stratigrafiche e analisi archeobiologiche, riuscendo infine a ricostruire natura e assetto del castrum, le attività che vi si svolgevano e il suo inserimento nella rete di traffici commerciali che facevano capo all’area del Delta del Po.
Le fonti scritte ubicano il vicus nelle vicinanze della pieve di Santo Stefano, menzionata a partire dall’841 e nota fino al 1188. Pieve e villaggio vengono di nuovo citati in un documento di compravendita dell’878.
Nel 911 l’abitato è trasformato in un castrum fortificato per volontà del vescovo di Reggio Emilia, su autorizzazione di re Berengario I. Questa evoluzione è riconducibile al fenomeno dell’incastellamento -che in area padana si sviluppa a partire dalla fine del IX secolo- cioè quel processo di accentramento della popolazione all’interno di insediamenti rurali fortificati (castra), circondati da fossati e difese in terra e legno (terrapieni e palizzate) per fronteggiare situazioni di grave insicurezza, come le nuove ondate di invasioni.
Il castrum risulta distrutto nel 1288 da Alberto della Scala e successivamente ricostruito. Menzionato ancora nel 1361, incontra un rapido declino, tanto da essere definito come villa nel 1387.
Questo secondo le carte. Da lì sono partite ricerche, sondaggi e studi che, come dimostrano i manufatti in esposizione, hanno dato esiti piuttosto inconsueti.
Se i manufatti più antichi sono in linea con quelli tipici dei siti incastellati in area padana, a partire dal XIII secolo la situazione sembra cambiare radicalmente.
Placchetta circolare decorata con racemi, probabilmente fissata all’abito a scopo ornamentale con un rivetto ancora inserito in posizione centrale. Lega di rame, dal XIII secolo (foto Roberto Macrì, Archivio fotografico SABAP-BO)
L’insolita presenza di materiali di pregio importati dal Veneto o dall’area bizantina (maiolica arcaica, graffita bizantina e ceramiche da mensa) testimoniano l’inserimento dell’area in un circuito commerciale di livello europeo, che transitava lungo il Po verso le regioni padane nord-occidentali e di cui pare rimasta traccia anche nella tappa intermedia di Santo Stefano di Vicolongo. Al tempo stesso, la densità di monete, armi e ornamenti databili tra il XIII e il XIV secolo attestano il carattere elitario dei suoi occupanti, oltre a riflettere un elevato livello di militarizzazione dell’insediamento che nella sua fase comunale subisce una notevole trasformazione in piazzaforte signorile (con annessa torre) perdendo le caratteristiche di centro di popolamento.
La mostra di Novi di Modena dà conto anche del lungo e complesso processo che ha condotto alla recente emissione del vincolo archeologico.
La prime ricognizioni di superficie, poi periodicamente ripetute, iniziano nel 1991, recuperando decine di reperti ceramici, metallici (strumenti da lavoro, oggetti d’uso quotidiano, ornamenti e armi), numismatici, laterizi e lapidei, e individuando un areale di circa un ettaro perfettamente visibile anche dalle foto aeree. Ma è solo con il progetto dell’Autostrada Regionale Cispadana che nel 2011 vengono avviati sondaggi più approfonditi: il tracciato prevede il passaggio sul sedime del castrum di Santo Stefano e la Soprintendenza dispone la realizzazione di saggi archeologici preventivi per verificare la compatibilità dell’opera pubblica con la tutela dei depositi presenti nel sottosuolo.
Seppur scontato, l’esito dei sondaggi è superiore alle aspettative e conferma non solo l’altissima potenzialità archeologica del sito ma anche una stratigrafia ottimamente conservata.
Alla luce di questi ritrovamenti ogni soluzione progettuale appare incompatibile con la tutela archeologica e la Soprintendenza non solo chiede e ottiene la variante del tracciato autostradale ma avvia contestualmente la pratica di dichiarazione dell’interesse culturale (il vincolo sarà emesso il 18 gennaio 2016) che mette definitivamente al riparo il castrum di Novi di Modena da eventuali futuri interventi che non siano legati alla ricerca archeologica.
Sede dell’esposizione: Novi di Modena (MO) – Sala EXPO presso il PAC – Polo Artistico Culturale, Viale G. Di Vittorio, 30.
Durata: 24 febbraio 2018 – 25 aprile 2018
ORARI giovedì ore 10-12,30; sabato e festivi ore 10-12,30 e 15-18
INFO 059 6789220 (Lunedì e Giovedì 15-19; Martedì e Mercoledì 9-12.30; 15-19; Venerdì e Sabato 9-12.30) – biblioteca1@comune.novi.mo.it
http://www.archeobologna.beniculturali.it/mostre/novi_mo_2018.htm
Mostra a cura di: Sara Campagnari (SABAP-BO), Mauro Librenti (Università Ca’ Foscari)
Promossa da: Gruppo Archeologico Carpigiano, Circolo Storico Novese, Circolo Naturalistico Novese, Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara
In collaborazione con: Gruppo Studi Bassa Modenese, Dipartimento di Scienze della Vita – UNIMORE
Patrocinata da: Comune di Novi di Modena e Pro Loco “Adriano Boccaletti” di Novi di Modena
Con il finanziamento di Fondazione Cassa di Risparmio di Carpi e il sostegno di Auser risorsAnziani – Sezione di Novi, Coop Alleanza 3.0, Caseificio Razionale Novese, Tecnofiliere S.R.L., AUTOMAC Engineering
Catalogo a cura di: Sara Campagnari (SABAP-BO), Mauro Librenti (Università Ca’ Foscari), Francesca Foroni (Gruppo Studi Bassa Modenese) edito nella collana “Biblioteca” del Gruppo Studi Bassa Modenese
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Dell’abitato fortificato medievale di Santo Stefano (castrum) i documenti d’archivio dicevano molto.
Menzionato nelle vicinanze della pieve di Santo Stefano come vicus a partire dall’841, pieve e villaggio appaiono nuovamente in un atto di compravendita dell’878, fino alla trasformazione dell’abitato in castrum nel 911 ad opera del vescovo di Reggio Emilia, su autorizzazione di re Berengario I. Questo mutamento è collegabile al fenomeno dell’incastellamento che si sviluppa in area padana a partire dalla fine del IX secolo quando da alcuni villaggi rurali, in questo caso il Vicus Longus citato dalle fonti, nascono centri fortificati o castra, circondati da fossati e difese in terra e legno (terrapieni e palizzate) per fronteggiare situazioni di grave insicurezza, come le nuove ondate di invasioni. Nello stesso periodo le fonti scritte testimoniano anche la presenza di un’articolata rete di pievi, ossia di chiese battesimali con diritto di decima, come la chiesa di Santo Stefano la cui ubicazione in rapporto al castrum è ad oggi incerta.
Il castrum risulta distrutto nel 1288 da Alberto della Scala e successivamente ricostruito. Citato ancora nel 1361, incontra un rapido declino, tanto da essere definito come villa in una fonte nel 1387.
Con l’età moderna l’oblio. Ma in quella contemporanea la rinascita. A partire dal 1991, l’area individuata come possibile sede del castrum diventa oggetto di periodiche ricognizioni di superficie da parte del Gruppo Archeologico Carpigiano, autorizzate dall’allora Soprintendenza Archeologica dell’Emilia-Romagna (ora Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara).
Il confronto fra la foto aerea e la planimetria generale mostra l’evidenza dell’insediamento di Vicolongo
Queste esplorazioni, ripetute con regolarità, individuano un areale di circa un ettaro, ben visibile anche dalle foto aeree, da cui affiorano i materiali. Parte dei reperti sembrerebbero risalire alla prima fase di frequentazione altomedioevale del vicus mentre sono ascrivibili alla fase di vita del castrum alcuni frammenti ceramici di XII e XIII secolo e numerosi reperti numismatici e metallici di un certo pregio che testimoniano come il castello, ubicato su un dosso fluviale in prossimità di un paleoalveo del Crostolo, lungo una direttrice viaria che da Reggio porta a Ferrara e al Po, fosse bene inserito nel circuito commerciale facente capo alle vie d’acqua convergenti verso l’area del Delta.
In epoca medievale il territorio di Novi è inserito nel settore di pianura tra i fiumi Crostolo e Panaro, caratterizzato da un’idrografia in continua evoluzione in cui l’insediamento, anche in epoca romana, doveva necessariamente essere attratto dai dossi di origine fluviale, intercalati alle aree vallive, o dai corsi d’acqua, nel settore più prossimo al Po.
Nel 2011 la progettazione dell’Autostrada Regionale Cispadana offre all’archeologia un’opportunità unica. L’ipotesi di far passare la strada nel territorio tra Novi di Modena e Concordia sulla Secchia, in località Fondo Nuovo, impone alla Soprintendenza di attivare la procedura di verifica preliminare dell’interesse archeologico nell’area interessata dal tracciato che, come si è detto, si presentava ad alta potenzialità archeologica sia per i dati bibliografici e d’archivio, sia per la fotointerpretazione che per l’esito delle ricognizioni di superficie. Le verifiche confermano subito la presenza dell’insediamento medievale fortificato di Vicolongo proprio nell’area dove le foto aeree evidenziavano un’anomalia di forma quadrangolare. I saggi mettono in luce nell’angolo nordoccidentale del castrum il sistema difensivo composto da terrapieno delimitato da due fossati: quello più interno largo oltre 10 m, quello esterno largo circa 6 metri. In quest’area viene in luce anche un manufatto ascrivibile alla fase di frequentazione del vicus precedente l’impianto del sistema difensivo, costituita da una fornace sigillata dai riporti del terrapieno riferibile alla fortificazione del villaggio intervenuta dopo un certo lasso di tempo.
Vista la consistenza delle stratificazioni archeologiche relative al castrum di Vicolongo e considerato che la natura dei depositi dimostra come i resti del villaggio siano in buono stato di conservazione, il tracciato del progetto risulta chiaramente incompatibile con la tutela del bene sepolto. La Soprintendenza chiede e ottiene una variante del tracciato autostradale e contestualmente dichiara il sito di interesse particolarmente importante ai sensi degli artt. 10 e 13 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (D. Lgs. 42/2004), ottenendo l’emissione del vincolo il 18 gennaio 2016.
Chiavi in ferro
Messo al sicuro il sito, e in attesa di fondi e risorse per poterlo ulteriormente indagare e studiare, Soprintendenza e associazioni locali -Gruppo Archeologico Carpigiano, Circolo Storico Novese, Circolo Naturalistico Novese– promuovono questa mostra che mette a sistema tutti i dati ricavabili dalle fonti e dai dati archeologici degli anni Novanta del ‘900, integrandoli con i dati forniti dalle più recenti indagini stratigrafiche e analisi archeobiologiche.
“In loco ubi dicitur Vicolongo. L’insediamento medievale di Santo Stefano a Novi di Modena” cerca di offrire una visione complessiva dell’insediamento sia con immagini che propongono la ricostruzione dell’aspetto del castello nelle sue fasi di vita, che attraverso una selezione di reperti che raccontano la vita nel castrum, a partire dalle fasi più antiche.
La mostra illustra gli aspetti relativi ad alimentazione, agricoltura, caccia e pesca, artigianato, scambi, abbigliamento e –non ultima- alla difesa, esponendo oltre 200 reperti ceramici, numismatici, metallici (strumenti da lavoro, oggetti d’uso quotidiano, ornamenti e un cospicuo repertorio di armi da lancio e da taglio), laterizi e lapidei rinvenuti in più di 25 anni di ricognizioni e nel corso dei sondaggi.
Completa la mostra la ricostruzione di una porzione delle partiture architettoniche originali della torre di XIII secolo.
Affiancano l’esposizione una guida breve e un catalogo scientifico, edito nella collana “Biblioteca” del Gruppo Studi Bassa Modenese, a cura di Sara Campagnari, Mauro Librenti e Francesca Foroni.
Le indagini archeologiche
Le indagini archeologiche preliminari hanno previsto la realizzazione di sei trincee di 30 metri in lunghezza per 3 metri di larghezza, ubicate all’estremità nord-occidentale dell’insediamento. I risultati, pur estremamente parziali, hanno consentito l’individuazione di tre periodi riferibili alla vita del castrum.
Prima del castrum
Alla profondità di circa m 1,50 dal piano di campagna è stato individuato un suolo di età altomedievale con andamento orizzontale, riferibile alla frequentazione del piano di campagna, come attesta una serie di tracce strutturali: questo strato era coperto ed intaccato dalle stratigrafie riferibili dagli interventi della successiva fase di incastellamento. Sigillati dai terrapieni, sono stati rinvenuti una piccola fornace, quattro buche di palo con andamento semicircolare e numerosi livelli di frequentazione costituiti da un’alternanza di limi ricchi di carbone. Della fornace si conservava solo la camera di combustione in concotto a pianta sub circolare; la struttura presentava l’imboccatura del praefurnium verso est ed una piccola fossa antistante a pianta subovale.
I materiali recuperati dal suolo sono prevalentemente ceramica da fuoco e pietra ollare.
La nascita del castrum (X–XIII secolo)
Risale a questo periodo la realizzazione delle fortificazioni con fossati e terrapieni.
Nei sondaggi è stato messo in luce il terrapieno più esterno, di circa 30 metri di larghezza, e parzialmente anche il sistema di fossati che lo circondavano. Il terrapieno, livellato e inciso dalle arature, aveva uno spessore massimo di circa un metro ed era costituito da un deposito pluristratificato composto da riporti prevalentemente limo sabbiosi. La formazione dell’argine deve essere avvenuta a più riprese come suggerito dalla presenza, al tetto di alcuni riporti, di buche di palo e concentrazioni di carboni, concotto e laterizi.
Oltre ai laterizi erano presenti, tra i materiali di scarico, anche numerose scaglie di pietra -in alcuni casi con tracce di lavorazione- e pochi frammenti di ceramica comune di epoca romana, ceramica da fuoco e frammenti di pietra ollare. Il terrapieno era delimitato da due fossati, uno di grandi dimensioni all’interno, adiacente all’insediamento, e uno di dimensioni minori all’esterno. La parte indagata del fossato interno presentava una larghezza parziale di 10 metri per una profondità massima indagata di 2,6 metri dal piano di campagna. A circa 30 metri di distanza dal fossato principale, separato dal terrapieno, è stato localizzato il secondo fossato della larghezza di circa 6 metri, indagato per una profondità di circa un metro. La lunghezza dei saggi non ha consentito di verificare la presenza di un terzo fossato di delimitazione esterna che risulta visibile dalla foto aerea.
Disegno ricostruttivo del castrum di Vicolongo come doveva apparire in epoca altomedievale (X-XIII secolo)
Da castrum a fortilizio signorile (metà XIII–XIV secolo)
L’ultimo periodo di frequentazione riconosciuto nei sondaggi si conclude entro il XIV secolo: è ascrivibile a questa fase l’individuazione di un fossato che incide i terrapieni. Il canale misurava circa 5 metri di larghezza massima per m 1,50 di profondità.
Possiamo supporre che il castrum includesse una torre, di cui restano una serie di mattoni di modulo tardomedievale con un lato semicircolare, evidentemente utilizzati per una cornice decorativa sul modello di altre strutture del periodo. Appare dunque verosimile che i fossati del castrum, ormai colmati, siano stati sostituiti da un fossato ellittico molto meno significativo dei precedenti. Questo intervento si colloca in una fase in cui il sito aveva ormai perso i propri caratteri di centro insediativo e anche l’apparato fortificatorio originario che risulta livellato e coperto in parte da livelli alluvionali.
Si tratta dell’ultima fase di frequentazione dell’area leggibile, oltre la quale si possono osservare solo depositi alluvionali e terreno arato.
Disegno ricostruttivo del castrum di Vicolongo come doveva apparire tra XIII e XIV secolo
I materiali in mostra
Provengono per la maggior parte dalle ricerche di superficie ma anche dai successivi sondaggi e sono soprattutto oggetti metallici in ferro (chiodi, chiavi, armi, strumenti da lavoro, etc…) e in lega di rame (soprattutto ornamenti ed elementi di cintura). Per la gran parte di essi, e in particolare per quelli in ferro, è molto difficile indicare una cronologia puntuale perché sono oggetti che restano in uso, sostanzialmente identici, per un arco di tempo lunghissimo, in alcuni casi dall’età antica fino alle soglie dell’età industriale, come ad esempio i martelli.
Attrezzi e strumenti di uso quotidiano
Tra gli attrezzi agricoli si segnala una zappa mentre la pesca è attestata da ami in lega di rame e pesi in piombo per lenze o reti ricavati dalle grappe in piombo utilizzate in epoca romana per riparare i dolia.
Uno dei nuclei più consistenti di oggetti metallici raccolti a Vicolongo, insieme ai chiodi, è costituito da chiavi in ferro di svariate tipologie e dimensioni.
Fibbie e altri elementi da cintura in bronzo
Le attività di tipo artigianale
Le attività collegate a processi di lavorazione di vario tipo (metallo, legname, tessuti, forse anche vetro) hanno lasciato un numero piuttosto consistente di reperti, circa il 25% degli oggetti in metallo rinvenuti. All’interno delle comunità di villaggio, oltre alle attività lavorative svolte a livello domestico per la produzione di beni essenziali, erano parallelamente praticate attività più rilevanti economicamente, anche all’interno di veri e propri atelier, temporanei o meno, come si osserva comunemente nei castelli indagati.
La quantità piuttosto modesta di oggetti collegati alla tessitura rende plausibile che fossero utilizzati nell’esecuzione casalinga di una serie di lavorazioni tessili e nella realizzazione di cordami, che doveva contemplare prevalentemente l’uso della canapa. La presenza di oggetti legati alle lavorazioni di fibre tessili (quali fusaiole e pesi da telaio) è una costante nei siti medievali, anche in quelli rurali, con particolari concentrazioni nei castelli altomedievali.
Realizzate in ceramica, ma anche ritagliate da pietra ollare o da recipienti in ceramica grezza, le fusaiole in pietra raccolte sono prevalentemente in steatite, una roccia tenera della quale sono state individuate e indagate alcune cave e atelier di lavorazione in area appenninica. La loro circolazione è percepibile nel territorio dal X secolo ma il loro numero e la varietà di forme e colore aumentano decisamente nei secoli successivi.
Un frammento di vetro verde, con segni circolari di frattura su una faccia, potrebbe essere ciò che resta di un pane di vetro o un grumo di colatura prodotto dalla fusione di un semilavorato. La presenza di pani di vetro è piuttosto frequente nei villaggi incastellati altomedievali. Questi semilavorati non sono necessariamente riconducibili a un’attività di lavorazione del vetro sul posto poiché potrebbe trattarsi di merce destinata a transitare verso i centri di lavorazione.
A sin. Frammento irregolare di vetro verde, forse il residuo di un pane di vetro o un grumo di colatura da fusione, a des. bottiglia a collo troncoconico in vetro verde del tipo Kropfflaschen
Altra presenza quasi costante nei castra è quella delle scorie di lavorazione del ferro sotto forma di scorie a calotta. Potrebbero rientrare nella voce dei materiali utili all’attività produttiva anche alcuni frammenti architettonici, provenienti probabilmente dai resti di strutture religiose limitrofe, utilizzati per un reimpiego.
L’abbigliamento e gli ornamenti
Il numero di oggetti riconducibili all’abbigliamento e gli ornamenti, tutti in lega e di tipologie piuttosto eterogenee riferibili soprattutto al periodo compreso tra il XIII e il XIV secolo, è abbastanza consistente. I più elaborati trovano confronti puntuali a livello europeo, come le spille e le applique, oltre alle più comuni fibbie.
Questi elementi erano destinati alla decorazione degli abiti, comprese le cinture e i bordi dei vestiti, con una serie di piccoli oggetti fissati con cuciture o rivetti. Si tratta di un repertorio di decori che iniziano a circolare prevalentemente dal XIII secolo, ad uso di un ceto sociale che vuole evidenziare, anche con gli abiti, la propria posizione sociale. Tra gli oggetti rinvenuti si segnala una placchetta circolare decorata con racemi che probabilmente era fissata all’abito con un rivetto ancora inserito in posizione centrale. Resta solo una porzione, invece, di una applique o una spilla circolare decorata a rilievo con un volatile all’interno e almeno tre ciuffi di vegetali nella corona.
Spilla circolare decorata a rilievo con un volatile all’interno e almeno tre ciuffi di vegetali nella corona. Lega di rame, dal XIII secolo
Pentole e forme da fuoco
Le pentole in pietra ollare, di forma cilindrica o leggermente troncoconica a fondo convesso, erano concepite per essere appese sul fuoco. È possibile osservare la concordanza dei recipienti di Novi di Modena, anche dal punto di vista petrografico, con gli altri rinvenimenti di superficie ascrivibili ai castra dell’area emiliana, tutti menzionati dalle fonti a partire dagli ultimi secoli dell’alto Medioevo. Questi oggetti erano al centro di un intenso traffico commerciale che, a partire dalle cave e dai punti di lavorazione dell’area alpina, in particolare quella centro occidentale, raggiungeva capillarmente i mercati del territorio.
Le ceramiche grezze da fuoco sono presenti in percentuale preponderante. Si tratta di recipienti destinati all’esposizione al fuoco per la cottura degli alimenti e realizzati con impasti ricchi di degrassanti che li rendono resistenti alla temperatura. Le forme documentate sono bene attestate in area padana nei secoli di passaggio tra l’alto ed il pieno Medioevo. I catini coperchio erano utilizzati come fornetti da pane portatili e costituiscono le forme più numerose, come le pentole ad occhielli, da sospendere direttamente sulla fiamma tramite un manico metallico.
La presenza di recipienti e contenitori è indiziata anche dal ritrovamento di immanicature e occhielli metallici che venivano utilizzati per una varietà di secchi e pentole realizzate nei materiali più vari, come ceramica, pietra ollare e legno.
Ceramiche smaltate e ingobbiate
Sul terreno è stato raccolto un piccolo nucleo di boccali in «maiolica arcaica».
Si è raccolto un solo frammento di ceramica ingobbiata e graffita databile entro il XIII secolo, una porzione di scodella di graffita bizantina, databile al XII secolo.
Frammento di scodella in ceramica graffita bizantina («Spiral Style») decorata con fascia circolare di motivi spiraliformi entro cornice e chiazze di verde ramina. XII secolo (foto Mauro Librenti)
La presenza di materiali di questo tipo è decisamente rara negli insediamenti, anche in quelli di natura urbana. La localizzazione dei rinvenimenti si inquadra lungo la fascia, piuttosto estesa, della costiera adriatica anche se con un numero esiguo di attestazioni, in relazione alle aree urbane e ai punti di approdo della rete commerciale con il Mediterraneo orientale.
Vetri
I numerosi frammenti vitrei raccolti sono databili al periodo tardo medioevale e riferibili a bottiglie a collo troncoconico e bicchieri realizzati in vetro trasparente azzurrognolo.
Monete
Durante le ricerche di superficie sono state recuperate una sessantina di monete, alcune di epoca romana, databili a partire dall’età augustea al IV secolo.
Il nucleo più cospicuo si data al periodo medievale: si tratta di alcuni denari lucchesi in argento e un denaro di Federico Barbarossa, databili al XII secolo, e di numerosi denari e grossi in argento di zecche emiliane (in particolare Modena e Bologna) e lombarde, risalenti al XIII secolo.
Monete di XII secolo
a sin. Milano, Federico I di Svevia detto “il Barbarossa” (1152-1190), Denaro imperiale in argento emesso tra il 1162 ed il 1167
a des. Lucca, Comune a nome di Enrico V di Franconia (1105-1125), Denaro in argento
Monete di XIII secolo
a sin. Modena, Comune a nome di Federico II (1220-1250), Grosso in argento
a des. Bologna, Comune a nome di Enrico VI imperatore (1191-1336), Bolognino grosso in argento, 1240 – 1250
Armi
Il repertorio di armi da lancio e da taglio presenti nel sito è veramente consistente.
Le armi da lancio sono presenti in almeno 20 pezzi tra i quali prevalgono le cuspidi di armi da lancio e da corda come due punte di giavellotto di un tipo piuttosto comune in tutta Europa.
Per quanto riguarda le armi da taglio almeno quattro frammenti sono riferibili a parti di una basilarda, un’arma corta che inizia a diffondersi dal Duecento e che nel corso del XIV secolo diventa un simbolo dal punto di vista militare. È stata anche recuperata una testa di mazza d’arme di tipo semplificato, con una testa costolata a raggiera che andava inserita nell’immanicatura circolare. Armi simili, nel modello italiano, sembrano aver diffusione a partire dal XIII secolo per poi perdurare anche nel successivo.
Armi in ferro: in alto lama di pugnale cd.“Baselardo”; in basso a sin. punta di giavellotto; in basso a ds. punta di freccia da balestra
Conclusioni
Per la fase più antica del castrum tutti i tipi di manufatti forniscono un dato comune alle fasi di vita dei siti incastellati a partire dai secoli finali dell’alto Medioevo in area padana. L’assenza di dati stratigrafici non permette purtroppo di dare una cronologia ad alcune attività specifiche, come il commercio o la lavorazione del vetro, mentre piuttosto ridotta parrebbe la lavorazione dei filati, in particolare per il numero modesto di tracce di attrezzi per la filatura e la tessitura.
A partire dal XIII secolo la situazione sembra cambiare radicalmente. Inconsueta è la presenza di materiali importati dal Veneto o dall’area bizantina, per i quali occorre comunque distinguere tra i diversi tipi di prodotto. La graffita bizantina rinvenuta fa parte di una serie di pezzi giunti in Italia settentrionale nel XII secolo mentre i materiali veneti sono rappresentativi di una corrente di traffico avviata nel secolo successivo, mutuando tecniche e tipologie ceramiche dall’Oriente. Non meno interessante è il panorama offerto dalla maiolica arcaica.
Complessivamente, il gruppo di ceramiche da mensa rinvenuto trova riferimenti assai più significativi in contesti urbani –ad esempio a Ferrara- mentre i siti del territorio forniscono raramente tipi fini da mensa nel corso del XII secolo. Si tratta certamente di un fenomeno da ascrivere al volume di traffico commerciale che transitava lungo il Po verso le regioni padane nord-occidentali e del quale, si può ritenere, sembra sia restata traccia anche in una tappa intermedia, come nel caso di Santo Stefano di Vicolongo.
Al tempo stesso, la densità di monete, armi e di ornamenti databili tra il XIII e il XIV secolo testimoniano il carattere elitario degli abitanti del castrum, oltre a riflettere l’elevato livello di militarizzazione dell’insediamento che nella sua fase comunale subisce una notevole trasformazione in piazzaforte signorile (con annessa torre) perdendo le caratteristiche di centro di popolamento.
da archeobologna.beniculturali.it